L’AUTOLESIONISMO

 

Nel 2015 in Gran Bretagna è stato condotto un sondaggio dalle organizzazioni impegnate nella tutela dei giovani. Un giovane su quattro tra gli undici e i quattordici anni e sette su dieci tra i diciotto e i ventun anni hanno dichiarato di aver cercato intenzionalmente in rete immagini di altri ragazzi che si procurano ferite. Il 60% degli adolescenti intervistati (tra gli undici e i quattordici anni) ha dichiarato di aver condiviso immagini di comportamenti autolesionistici sui social network.

 

L’autolesionismo si fa semplicemente male?

Sembra che l’autolesionista si faccia semplicemente male, in realtà c’è dell’altro. Chi volontariamente si taglia con oggetti vari, si ustiona, si strappa i capelli fino a creare chiazze di alopecia, mangia le pellicine delle unghie, oppure si morde labbra e guance fino al sanguinamento, riconosce di fare qualcosa che si disapprova, di disgustoso, che potrebbe far inorridire e spaventare. Questi comportamenti rendono l’autolesionismo una pratica trasgressiva che, a differenza di quanto si possa immaginare, fa provare una forma di piacere che lenisce il dolore.

 

Le due facce dell’autolesionismo

L’autolesionismo è una pratica trasgressiva messa in atto per provocare forti emozioni; è una condotta che dà contemporaneamente dolore e piacere. Queste due emozioni contrapposte hanno la stessa base neurobiologica. Entrambe sono regolate dal sistema limbico intorno al talamo, il centro della “ricompensa” e della “punizione” (Bujatti e Riederer, 1976). Nel talamo avviene il rilascio e l’inibizione delle endorfine e della serotonina: i principali neurotrasmettitori che intervengono nelle dipendenze, regolatori del dolore e del piacere (Liberazon et al., 1997). Secondo Walsh (2005), l’astinenza dal dolore può scatenare reazioni ansiogene, perdite di controllo, irritabilità, disforia, depressione, apatia e anedonia (vuoto e intorpidimento): sensazioni che nell’autolesionista svaniscono mentre ferisce il suo corpo e gli danno sollievo subito dopo. I meccanismi neurochimici che si innescano, le emozioni che si provano e i comportamenti manifestati rendono questa pratica simile alla tossicodipendenza. Entrambe, infatti, seguono lo stesso cliché: pratica (consumo)-tolleranza-astinenza-ricerca. Le prime volte è il dolore a dominare. Con la reiterazione, però, i benefici emotivi non tardano ad arrivare e la sperimentazione occasionale facilmente si trasforma in una compulsione irrefrenabile. Nardone e Selekman (2011) sostengono che i comportamenti autolesionistici possono originare sia dal dolore sia dal piacere. Nel primo caso, il danneggiamento del proprio corpo (abusando di sostanze, intraprendendo pratiche sessuali rischiose, estreme, umilianti, strutturando invalidanti disturbi alimentari) è praticato per anestetizzarsi. Il dolore fisico provocato con le ferite mette a tacere un dolore emotivo che potrebbe essere stato provocato da un abuso, una perdita, un abbandono, una delusione derivante da altri o da se stessi ecc. Come la morfina, l’autolesionismo solleva dal dolore, perciò la persona arriva a non poterne fare a meno. Dall’altra parte, ci sono pratiche autolesive messe in atto per il puro piacere: attirare l’attenzione, tenere in ostaggio le persone, manipolare una situazione, andare oltre i propri limiti per ottenere approvazione, autocompiacersi per ciò di cui si è stati capaci ecc. In questo secondo caso, tagli, bruciature e ferite non sono nascosti, c’è la volontà di renderli visibili a genitori, insegnanti e amici. Addirittura, possono essere ostentati e diventare oggetto di vanto per dimostrare coraggio, forza, appartenenza, sensibilità artistica, capacità ecc. In questi casi, i comportamenti a rischio sono vissuti come sfide. La posta in gioco, salendo di livello, diventa sempre più alta, tende alla letalità spesso per incidenti o errori di valutazione. La pratica autolesiva consolidata, a prescindere da ogni cosa, è un rituale che dà benefici, e con il passare del tempo è sempre più difficile farne a meno. Come sosteneva Henri Laborit (1982), premio Nobel per la biologia: «Ogni cosa ripetuta nel tempo diventa piacere».

 

Autolesionismo: una nuova epidemia tra i giovani

L’autolesionismo è un comportamento in espansione tra gli adolescenti. Tagliarsi, graffiarsi, escoriarsi le ferite, percuotersi, bruciarsi, sbattere la testa, farsi tatuaggi e piercing estremi, magari senza curarsi dell’igiene, mordersi, ingerire corpi estranei, strapparsi i capelli, tra i metodi usati da chi si procura volontariamente ferite, sono quelli più comuni (Nixon e Heath, 2009; Nock, 2010). Il corpo, in adolescenza, può diventare uno strumento per esprimere e comunicare emozioni, appartenenze, ideologie, ansie; può essere un’arma di seduzione usando il make-up in un certo modo, un oggetto artistico-espressivo su cui agire anche con estrema violenza, un oggetto per essere trendy se si hanno certi segni e disegni riconoscibili anche dagli altri della propria “tribù”. Grazie al corpo è possibile esprimere forza, bellezza, coraggio, perciò viene modellato con lo sport, con piercing, con tatuaggi tradizionali o che utilizzano tecniche più insolite come lo scarring (asportazione del derma in modo da avere il disegno desiderato quando si cicatrizza), il branding (marchi a fuoco), il cutting (incisioni che lasciano sottili cicatrici).

Mentre il comune autolesionista nasconde le sue ferite, chi ne fa sfoggio, perché ne ha fatto una pratica professionale o uno stile di vita, le ostenta, cerca di far conoscere la sua arte organizzando spettacoli, partecipando a meeting e convention.

 

L’autolesionista è da considerarsi a rischio di suicidio?

Shneidman (1993) afferma: «L’autolesionista si fa male per stare meglio!» Al contrario, chi compie un tentativo di suicidio non vede alcuna possibilità di migliorare la propria situazione, il suo obiettivo è interrompere lo stato di dolore psichico in modo permanente. In genere, l’autolesionista riferisce di non aver intenzione di morire: sembra che la sua pratica sia solamente un tentativo per liberarsi dallo stato di sofferenza vissuto (Klonsky, May, Glenn 2010). La morte è rara da parte dell’autolesionista riservato e/o diretto. Le probabilità aumentano notevolmente quando il procurarsi ferite diventa una sperimentazione maniacale, esasperata e fuori controllo, quando il piacere per il rischio impedisce di percepire con chiarezza il reale pericolo, quando c’è la volontà di esibire ciò che si fa. In questi casi la morte, che potrebbe essere una conseguenza indiretta, sarebbe causata da un incidente o da un suicidio? Da un certo punto di vista, la differenza fondamentale tra l’autolesionista esibizionista e il suicida sta nel marcato e prepotente senso di onnipotenza da cui è preso il primo, che per il piacere del rischio non considera né la sua vita né quella degli altri ed è disposto anche ad andare incontro a una morte atroce. La maggiore pericolosità dell’azione è promossa da uno spiccato pensiero irrazionale che, con il superamento delle prove, fa percepire se stessi come immortali e diversi da tutti quelli a cui è successo l’incidente. Si forma l’autoinganno picaresco: «Meglio un giorno da leone che cento da pecora». Rientrano in questa categoria coloro che indirettamente possono arrivare a ledere il loro corpo, praticando rapporti sessuali senza precauzioni e con estranei, guidando ad alta velocità in luoghi pericolosi, facendo giochi rischiosi come attraversare l’autostrada senza guardare, camminando ad altezze elevate, restando sui binari mentre arriva il treno ecc. (Papantuono, 1999).

 

Un grido d’aiuto per richiamare l’attenzione di genitori sempre più alienati

Un giovane su dieci chiede consigli a genitori o a persone vicine, gli altri preferiscono cercare risposte on-line. Si preferisce chiedere a chi condivide le stesse esperienze, anche se estranei. I genitori, spesso per motivi di lavoro, purtroppo non potendo permettersi di vivere i figli come vorrebbero/dovrebbero, delegano il loro ruolo a nonni, tate, doposcuola, televisione, PC, smartphone ecc., fino a disconoscere le esigenze dei figli. Le difficoltà di condividere esperienze e occasioni di confronto creano vuoti affettivi e sensi di colpa che si tentano di colmare e di mettere a tacere con i beni materiali. Il giovane che dal genitore prende regali, premi, viaggi, anche senza aver fatto nulla per meritarseli o persino quando compie delle malefatte, riceve il messaggio che tutto gli sia dovuto. Inoltre, l’affetto richiesto dai genitori, potrebbe essere confuso dal figlio come il prezzo da pagare per ottenere i suoi desideri, pertanto potrebbe essere strumentalizzato a fini ricattatori. I genitori che, per il senso di colpa e/o per evitare il conflitto, non stabiliscono delle regole necessarie a orientare e a porre limiti finiscono per alimentare confusione e senso di onnipotenza (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2010). Spesso, infatti, si verifica quello che sostiene Mignon McLaughlin (Gardner, 1982), ovvero: «Molti di noi diventano genitori molto prima di aver smesso di essere bambini».

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